(L’autore, in tre momenti della sua vita. E il monumento tre volte restaurato)

M. se n’è andato

Universalmente lo chiamano Amadeus, ma lui mica lo sa. Lo hanno battezzato Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus. I primi 2 nomi rimandavano al santo del giorno di nascita, Wolfgangus onorava la memoria del nonno materno. Invece quel nome greco, Theophilus, corrisponderebbe al latino Amadeus e al tedesco Gottlieb, il suo padrino. Corrisponderebbe, d’accordo, ma come Amadeus lui non si è mai presentato, né firmato, e nessuno lo ha mai chiamato così. Durante i 15 mesi del soggiorno in Italia, tra il 1769 e il 1771, s’è fatto chiamare Wolfgango Amadeo e dal 1777 si è autonominato Wolfgang Amadé. Oddio, all’inserimento nei casellari del magistrato di Vienna è stato registrato come “Wolfgang Amadeus”, ma è il giorno del suo decesso, e lui non lo saprà mai.


A settembre del 1791, nell’ultima visita di M. a Praga dove il pubblico lo adora, a differenza dei viennesi che sembrano averlo messo da parte, gli amici si sono preoccupati per il suo viso insolitamente triste e il malsano colorito giallastro. Spesso ha dovuto consultare i medici, ma al ritorno a Vienna il clamoroso successo del suo “Die Zauberflöte” al 30 di quello stesso mese lo ha rivitalizzato. Il morale positivo dura poco, però, ed è la melanconia a prevalere. Il suo star male si aggrava, e una delle rare belle giornate, durante una passeggiata al Prater, con le lacrime agli occhi, confida a Constanze di aver capito che il Requiem che gli è stato commissionato sarà riservato a lui stesso, troppo forte è la sensazione di non aver ancora molto da vivere. Lei intuisce che è proprio quel Requiem a mettere a dura prova i suoi delicati nervi e cerca, quasi con la forza, di sottargli la partitura. A quella tiepida giornata, a peggiorare la sua salute, segue un autunno terribile: piogge torrenziali, bufere di neve e molto freddo. Accettando il consiglio della moglie si dedica, con mano sempre sicura alla “Piccola cantata massonica” la sua ultima opera completa (K623) che al 18 novembre dirige di persona scatenando l’entusiasmo. Rientra a casa al colmo dell’euforia, ma due giorni dopo la malattia prende il sopravvento ed è costretto a mettersi a letto per i forti dolori cui seguono gonfiore di mani e piedi, perdita di motilità e vomiti improvvisi. Su quella malattia le congetture si sprecano. Suggestiva, ma inattendibile l’ipotesi di avvelenamento da parte di Salieri anche se così ben descritta nello stupendo film diretto da Miloš Forman. Secondo la tesi quasi unanimemente accertata dovrebbe essersi trattato di febbre reumatica, a quel tempo almeno 30 volte più frequente di oggi, con un decorso molto più violento che poteva condurre a morte in breve tempo anche a causa degli scarsi mezzi per combatterla. I continui salassi non fanno che peggiorare la situazione. Un consulto medico al 28 novembre stabilisce che l’organismo stremato non è più in grado di reagire: non ci sono speranze. Ma M. cerca di continuare a elaborare il Requiem, che rimarrà incompiuto, coadiuvato dall’allievo Süßmayr che si periterà di completarlo. Alle 2 del pomeriggio del 4 dicembre sono presenti al suo capezzale numerosi amici che, su richiesta del Maestro che tenta addirittura d’intonare la parte del contralto, eseguono il Requiem. Arrivati al “Judicandus homo reus” del “Lacrimosa” dove il lavoro è interrotto, M. è sopraffatto dalla certezza che non lo terminerà mai più, scoppia in un pianto dirotto, e mette da parte i fogli. Più tardi confida alla cognata Sophie di sentire già il sapore della morte sulla lingua e lei corre a cercare un sacerdote che gli somministri l’estrema unzione. Il dottor Closset che lo ha in cura, impegnato a teatro, tarda a venire, e al suo arrivo il consiglio di impacchi freddi su una fronte che sta bollendo risulta deleterio. M. perde i sensi, intorno a mezzanotte si riprende e gonfia le gote quasi a imitare la percussione dei timpani nel suo Requiem. Tenta di rialzarsi, sbarra gli occhi nel vuoto, ricade e si assopisce. Accanto a lui ci sono la moglie, Sophie che è rientrata da poco, e il medico. Alle 0.55 del 5 dicembre 1791 non è più con noi. Constanze, disperata, si getta sul corpo del marito, implorando di morire assieme a lui, contagiata da un male che contagioso non doveva essere. Verrà allontanata e non presenzierà nemmeno al funerale che si terrà alle 15 del 6 dicembre in una cappella laterale del Duomo di Santo Stefano. Ci saranno pochi amici tra cui i cognati, Süßmayr e, sembrerebbe appurato, anche Salieri. Si disperderanno alla Stubentor, una delle porte della città e nessuno seguirà la cassa fino al Sankt Marxer Friedhof a un’oretta di cammino. La vedova si dirà convinta che sicuramente la loro parrocchia avrebbe pensato a mettere una croce, ma non fu così e quando si decise a far visita all’immaginata tomba (non molto tempo dopo, erano passati appena 17 anni!) il custode era cambiato e non si trovò nessuno capace di dare informazioni più precise per rintracciare con sicurezza il luogo esatto in cui il corpo, cucito in un sacco di lino, venne estratto dalla poco costosa bara di abete rosso (riutilizzabile), deposto nella fossa con altri cadaveri, e ricoperto di calce viva per accelerarne la decomposizione. La “tomba” che i turisti, convinti, visitano al Cimitero Centrale è un semplice cenotafio. Mezzo secolo dopo la tumulazione, uno studioso venne a sapere da 2 musicisti che avevano conosciuto personalmente M. che, da loro informazioni ricevute dai becchini, la fossa doveva trovarsi alla destra del crocifisso, nella terza o quarta fila, e successivi approfondimenti stabilirono che quasi certamente era proprio la quarta, vicina a un cespuglio di salici. Un guardiano volenteroso compose quest’opera commemorativa usando residui di altri monumenti. Per me è sufficiente per definirla “tomba di Mozart”, anche se i suoi resti non ci sono più, ma ci furono per 10 anni. Mi piace pensare che almeno una cellula sia ancora lì sotto. E mi basta così!