Apologia degli errori linguistici
(La lunga e difficile storia della lingua italiana spiegata in modo breve e conciso)
Il processo che ha permesso al volgare latino di declinarsi nelle lingue romanze è stato determinato da molteplici variazioni linguitiche quali, ad esempio, la variazione diacronica, diatopica e quella diastratica: il latino variava in base al luogo in cui lo si parlava e in base alla classe sociale che lo parlava. Questo ultimo punto è probabilmente il più importante, perché bisogna tener conto che l’italiano che parliamo oggi non deriva dal latino scritto di Cicerone, Catullo o Tito Livio, ma dal cosiddetto latino volgare, quello parlato dal popolo, quello che, essendo legato all’oralità, ha permesso un’evoluzione spontanea e rapida della lingua. Non a caso Dante stesso nel suo trattato linguistico De vulgari eloquentia, considera la lingua parlata come una lingua appresa sine omni regula, una lingua cioè appresa grazie a coloro che ci stanno accanto, svincolata dalla rigida grammaticità della lingua scritta e, quindi, artificiale.
Se una lingua varia nel tempo è grazie agli errori commessi nell’oralità, che possono o morire o essere reiterati dai parlanti fino a che non diventano vere e proprie innovazioni linguistiche, entrando così a far parte dell’uso.
Talvolta, le innovazioni sono talmente tante da far, diciamo così, nascere una nuova lingua, poiché la lingua di arrivo è completamente diversa da quella di partenza. Questo è ciò che è avvenuto con il latino e i dialetti romanzi: come sostiene il filologo Alberto Varvaro, con la caduta dell’Impero e le invasioni barbariche tra il III e il IV sec. d.C., la lingua latina ha subito un processo di regionalizzazione e quindi di differenziazione in base al luogo in cui veniva parlata.
Il 1525 fu l’anno in cui il dialetto toscano fu scelto da Pietro Bembo per essere la lingua standard della letteratura, poesia e prosa. Egli scrisse il trattato Prose della volgar lingua in cui stabilisce che Dante, Boccaccio e Petrarca debbano essere il paradigma da seguire per scrivere nel modo migliore più elegante. Nel ‘600 il fiorentinocentrismo venne criticato da personalità quali Paolo Beni ne L’anticrusca e Daniello Bartoli ne Il torto è ‘l diritto del non si può, trattati in cui vengono mosse molteplici critiche contro l’arcaismo difeso dall’Accademia della Crusca; in particolare Bartoli recupera i testi dei toscani e mette in evidenza le contraddizioni che ci sono nel loro vocabolario non omogeneo.
Tornando al discorso di Bembo, la scelta del fiorentino deve far riflettere su due questioni: in primis, il fatto che la lingua italiana derivi dal dialetto toscano trecentesco è solo un “caso”; non era “più bello” o “più corretto” rispetto agli altri volgari, è solo accaduto che i tre più illustri scrittori della penisola fossero toscani e scrivessero in fiorentino. In secondo luogo, l’italiano è una lingua nata per essere una lingua letteraria, e questo spiega perché molti poveri e analfabeti continuassero a parlare con i loro dialetti e non conoscessero una sola parola d’italiano. La conseguenza di questo secondo punto è che nell’Ottocento la lingua italiana non era ancora lingua standard dell’Italia, e durante questo secolo furono personalità quali Vincenzo Monti e Alessandro Manzoni a riaprire la “questione della lingua”. Il primo, con la pubblicazione della Proposta, suggerisce una serie di, appunto, proste, di aggiunta per l’ampliamento del vocabolario della Crusca, ormai pieno di errori e lacune; mentre il secondo, Manzoni, sosteneva che non avesse senso scegliere una lingua e fossilizzarla nel tempo con norme e artifizi non inerenti alla realtà. Serve una lingua viva, che leghi scrittori e popolo, non un modello rigidamente normato. È per questo che la versione finale dei Promessi sposi è scritta nella lingua parlata dalla borghesia fiorentina, di cui Manzoni ha avuto esperienza in un viaggio nel 1827. Mettendo fine al diverbio durato secoli sulla questione della lingua, l’autore del primo e più grande romanzo italiano ci insegna quindi che la lingua non è fatta per essere un reperto a cui aspirare, ma deve essere considerata ciò che più di naturale è dell’uomo. Quindi, quando qualcuno sbaglia un congiuntivo o dice “gli dà” anziché “le dà”, dovremmo indossare i panni da linguisti ed
esaminare questo fenomeno non in termini di giudizio ma constatativi: stiamo assistendo a un mutamento linguistico travolgente, dovuto a fatti tanto linguistici quanto extra-linguistici, e con l’avanzare del tempo, necessariamente, il parlato trasgredirà lo scritto, diventando sempre di più qualcos’altro. È inevitabile: la lingua evolve insieme all’uomo. Innanzi ad un errore, che lo vogliamo o no, dobbiamo pensare di avere davanti a noi una potenziale futura innovazione, e abbiamo sì, il dovere (e il diritto) di correggerlo, ma non di rabbrividirne. Se non sono più reputate necessarie dai parlanti e da un sistema tanto spontaneo come quello linguistico, certe norme, certe locuzioni e certe voci non hanno alcuna ragione di esistere, ed è la storia stessa della lingua ad insegnarcelo.