Il presepe della memoria
Avevo fatto appena in tempo a dirglielo.
Ho davanti la statuina di fattura siciliana, ultimo acquisto di un recente viaggio.
La bambina dondola tenendo strette le manine alle corde assicurate a un ramo dell’albero. Ella sa del ruolo di comprimaria che l’attende al prossimo presepe di casa.
Ma il presepe di tre anni fa è un’altra storia. Dischiude i grandi occhi della memoria al ricordo di un mondo fatto di affetti legati a un’infanzia felice, ai primi timidi aiuti dati a mio padre nell’allestire quel paesaggio che trovava posto nel solito angolo dell’ampio salone della mia casa chietina. Lui, che la passione l’aveva ereditata dal proprio genitore, è riuscito a trasmettermi il gusto di saper scegliere i pastori e collocarli secondo le rispettive dimensioni in modo da non falsare la prospettiva; e la sapienza di porre la carpine (cioè, il muschio) così da coprire la netta sovrapposizione dei fogli chiamati a riprodurre uno scenario quasi sempre di montagna dove, alla fine, arrivava la mia mano a depositare la neve che sapeva di farina.
Rimanevo ammirato nel vedere le sue mani farsi improvvisamente abili nel creare scenari e intrecciare luci. Avevano tirato di scherma quelle mani, accarezzato fioretti, incrociato le lame degli avversari, calpestando pedane in un’epoca in cui la gioventù la si era consegnata ad altri ideali.
Si cominciava dalla fine di novembre a cercare statuine e quant’altro sarebbe occorso alla preparazione.
La mattina dell’Immacolata si avviava il lavoro.
Tutto questo senza che mai il folclore avesse il sopravvento sulla Fede.
Oggi, nel pieno della maturità, il rito si rinnova con i miei figli, ai quali cerco di rendere vivi e vicini i personaggi che popolano il presepe domestico, che ci sussurrano di una tradizione lontana, di mestieri scomparsi, di abiti antichi e dismessi. I borghi tornano a popolarsi degli ultimi artigiani, alcuni dei quali rimasti tra le immagini infantili di chi narra questa favola senza tempo. Ci sono anche la portatrice d’acqua con la conca sulla testa, il giovane musicante, l’opulento oste tra l’odore del mosto che invade la locanda, il gattino arrotolato sul tetto di casa, l’uomo ignaro che dorme, una coppia di anziani popolani nell’atto infinitamente amorevole di tenersi per mano, il cacciatore orgoglioso dei suoi pennuti, il fornaio con i pani recenti che profumano di caldo, che ogni anno avranno un posto diverso per recitare, in fondo, sempre la stessa parte.
È un campionario di umanità quello che nel presepe abruzzese traduce con gusto fedele, legato alle umili attività della nostra gente, la ricerca di quel “mistero” che «segna per la fede cristiana il nuovo inizio del mondo».
Ho imparato, grazie a mio padre, l’importanza della manualità condivisa. Ho imparato l’importanza di stare accanto ai genitori, di apprenderne l’esperienza, la saggezza, tramandando la bellezza di questo rapporto, consapevole che la preparazione del presepe è un momento forte di unione tra generazioni così apparentemente distanti tra loro.
Tutto questo nel pensiero di mio padre al quale, prima di quell’ultimo Natale, avevo fatto in tempo a dire del “nostro” presepe appena terminato.

Enrico Di Carlo

da Il Presepe dell’anima. Suggestioni e melodie del Natale abruzzese, Castelli, Verdone, 2014