Camillo Sbarbaro, uno sguardo a “Taci, anima stanca di godere“ e a Pianissimo La fama dei grandi poeti che costituiscono il canone novecentesco spesso oscura i nomi di quelli che li hanno preceduti e hanno reso possibile la loro canonizzazione. È il caso di Camillo Sbarbaro, poeta della linea ligure, la cui poesia è coerente con la sua persona: umile, quieta e dall’esistenza condotta a bassa voce. Una poetica dalla voce bassa è quella della sua raccolta di poesie pubblicata per la rivista La Voce nel 1914, Pianissimo. Taci, anima stanca di godere è la poesia d’esordio della raccolta, di rilevante importanza poiché annuncia il motivo principale su cui fonda l’intera poetica sbarbariana: la rassegnazione. Come scriveva Lorenzo Polato: «L’irreparabile è avvenuto, bisogna guardarlo in faccia, non dimenticarlo e non dimenticarsi» ed è questa la filosofia poetica di Sbarbaro. La poesia dà voce all’irreparabile, a un momento di verità: la causalità della vita e il suo determinismo si interrompono per un istante, tempo necessario per permettere al poeta di guardare la realtà che gli si svela davanti per quella che veramente è. Nel primo endecasillabo, che presta il nome al titolo della poesia, il poeta si rivolge direttamente alla sua anima, constatando di non sentirla più né godere né soffrire. E nel medesimo verso già svela qual è la causa del suo ammonimento: «Taci, anima stanca». È la stanchezza, dunque, ad averla annichilita a tal punto da, come scrive nei versi successivi, farla partecipare ai più svariati sentimenti della vita passivamente. E, continua, ella giace «come il corpo»: anima e corpo, a cui il poeta sembra estraneo, giacciono in un’immobilità funerea che rimanda a Taci, anima mia. Son questi i tristi versi, poesia d’esordio della seconda parte di Pianissimo, che si conclude con i due versi «E, venuta la sera, nel mio letto / mi stendo lungo come in una bara»: di fatto un altro motivo fondante la raccolta è il compianto dell’essere che è però ancora in vita, laddove la sua morte viene però percepita come già avvenuta. L’oggetto principale delle poesie che rappresenta questo particolare cordoglio è il padre di Sbarbaro, Carlo, al tempo gravemente malato, e a cui il figlio dedicò Padre che muori tutti i giorni un poco. Nei versi successivi il poeta si rivolge alla sua anima in modo amorevole e complice, dicendole che sa che né lui né lei si stupirebbero se in questa situazione di immobilità il cuore cessasse di battere, dichiarando definitivamente la sua morte; «Invece camminiamo» continua «Camminiamo io e te come sonnambuli». La condizione del sonnambulo è un leitmotiv tipicamente sbarbariano: i momenti di verità si manifestano quando la mente del poeta è semicosciente, come nello stato di veglia o appena risvegliato dal sonno, come in Mi desto dal leggero sonno solo o in Svegliandomi il mattino, a volte io provo, poesie in cui Sbarbaro sviluppa il dramma del risveglio, situazione in cui l’esperienza riemerge e ristabilisce il contatto momentaneamente interrotto dalla coscienza che, appena svegliata, per pochi istanti è stata serena e vergine dalla consuetudine. L’epifania si compie, Sbarbaro guarda e capisce la realtà: E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne e tutto è quello che è, soltanto quel che è. L’inganno della vita è disvelato. La realizzazione del poeta che oltre non c’è nulla, è per lui la più grande delle mortificazioni. La realtà perde il tratto seducente e si svela per il gran deserto che è, l’irreparabile è avvenuto: «Perduta ha la sua voce / la sirena del mondo, e il mondo è un grande / deserto». A fine componimento Sbarbaro proietta il suo sé all’esterno e lo guarda nello stesso modo in cui pochi versi prima guardava le cose: è questa l’unica azione che può fare, che distingue l’essere dal non essere, il guardare. La coscienza è assopita, i sentimenti anche, non vi è giudizio nel panorama degradato che gli si staglia davanti: egli assiste al mondo e a sé stesso.