IL SONETTO Vittorio Verducci

Tra i formati metrici della nostra tradizione letteraria, il sonetto è stato quello che ha riscosso maggiore successo presso i poeti, tanto da essere utilizzato, al contrario di altri, lungo tutto il corso dei secoli fino a giungere ai giorni nostri. Ne fu ideatore, così dicono le storie, Jacopo da Lentini, un autore che appartenne alla Scuola poetica siciliana, una Scuola che il grande Imperatore Federico II, poeta e scrittore lui stesso, istituì presso la sua Corte. Il nome è comunque provenzale e deriva da “sonnet”. che significa “piccolo suono”, probabilmente perché in origine questo componimento era legato alla musica. La sua forma – quattordici versi suddivisi in due quartine a rima in genere alternata o incrociata e in due terzine dallo schema rimico molto variabile (rime alternate, ripetute, speculari. ecc,) – deriva, secondo alcuni studiosi, dall’unione di due strambotti siciliani (il primo di otto versi, il secondo di sei); secondo altri dalla stanza di una canzone, costituendo le ottave la fronte (che pone un problema o una situazione, ecc.) e le terzine la sirima (in cui il poeta fa le sue riflessioni). L’argomento fu inizialmente di carattere amoroso, per poi passare a tematiche di natura civile, morale, politica, satirica, burlesca. Grandi autori di sonetti furono i poeti del Dolce Stil Novo, e, in particolare, Dante Alighieri, che diede al sonetto i toni del più alto lirismo. Altro grande compositore in questo metro fu Francesco Petrarca; scrissero sonetti Giovanni Boccaccio, i poeti dell’Umanesimo, del Rinascimento, dell’epoca barocca, del Settecento, dell’Ottocento, compreso Giacomo Leopardi. Nel Novecento, nonostante l’affermarsi del verso libero, usarono il sonetto poeti del calibro di Pasolini, Zanzotto, Sanguineti, pur nella ricerca di innovazioni metriche e linguistiche. Il sonetto ha avuto un forte seguito anche fuori dell’Italia. Autori di sonetti furono lo spagnolo Pablo Neruda, il portoghese Pessoa, tutti rispettosi della metrica classica; in Francia fu Marotique il primo a usarlo, dandogli però una diversa struttura: due quartine con identiche rime alternate, e poi, con rime diverse per ogni strofa, un distico a rima baciata e una quartina finale a rima alternata. Anche in Germania il sonetto ebbe seguito, soprattutto nell’ ’800 (Schiller); e in Inghilterra tale formato fu introdotto da Thomas Wyatt con la variante delle tre quartine (le prime due con identica rima alternata, la terza con rime proprie) e il distico finale a rima baciata; Shakespeare usò lo stesso schema però con rime diverse nelle tre quartine. Ma a che cosa è dovuta la fortuna di questo formato? Perché i poeti di tutti i tempi l’hanno così privilegiato? La risposta forse ce la dà Giosue Carducci, che definì il sonetto “piccola grande Ode”. Ed in effetti il sonetto, in pochi versi, permette al poeta di esprimere i moti più genuini dell’animo, a volte per mezzo di un solo pensiero o di una sola immagine: un concentrato, quindi, di emozioni, sentimenti, pensieri attraverso il breve volgere di una o poche frasi. Comincia, il sonetto, in tono sommesso, quasi in sordina, per poi a mano a mano, come in un crescendo rossiniano, aumentare d’intensità fino a esplodere nel verso finale. Seguono alcuni secondi di silenzio che permettono al lettore di godere appieno della bellezza dei versi, del loro ritmo e del loro suono. Su questo formato i poeti si sono sbizzarriti a portare innovazioni e varianti. Abbiamo il sonetto caudato, che prevede l’aggiunta di una o più terzine costituite da un settenario (che rima con l’ultimo verso della strofa precedente) e da due endecasillabi a rima baciata. Se la coda è composta da diverse terzine, la composizione prende il nome di sonettessa. Altre varianti sono il sonetto doppio, reinterzato, il sonetto a due e tre rime, il sonetto minore e minimo, il sonetto continuo, il ritornellato, lo speculare, il doppio speculare carpiato. Queste due ultime sperimentazioni sono state effettuate presso l’ “Accademia Alfieri” di Firenze: una scuola poetica fondata da Dalmazio Masini, inventore, appunto, del sonetto speculare (e anche del rondò italiano); mentre al sottoscritto venne l’idea di aggiungere al sonetto speculare un sonetto rovesciato, anteponendo le terzine alle quartine e mantenendo la specularità delle rime. Concludo questa breve nota con l’augurio che siano sempre più numerosi i poeti che hanno voglia di cimentarsi in questo straordinario formato, scaturito, insieme ad altre forme, dal genio poetico italiano.