Ci rimango male, quando la gente definisce il dialetto una “lingua di serie B”. Ci rimango male, quando i Poeti (quelli veri, con la P maiuscola) anziché scrivere le loro emozioni, allineati e coperti dietro le uniformi uniformanti della lingua italiana, non rompono le righe seguendo il loro primo istinto,

quello che trasmette l’emozione dell’immediatezza attraverso quella scorciatoia che mette in comunicazione i pensieri con la parola: il dialetto.
Ci rimango male, se vedo che chi salta il fosso dell’omologazione, non trova chi possa risolvere i dubbi che vengono quando si vuole trasformare in forme grafiche un suono: il dolce suono delle parole dialettali. Sono pochissimi i centri culturali dove si “insegna dialetto”: segno di mancanza di fondi, e/o mancanza di capacità e di interesse?

Ci rimango male, quando mi rendo conto che sono pochi quelli che cercano di risolvere quei dubbi: pensano che non esistano regole e scrivono di conseguenza, usando lessico, sintassi e ortografia approssimate alle loro capacità. Forse sono loro che innescano quel meccanismo perverso che si innesca leggendo composizioni “scritte male” e che quindi abbassano il livello della qualità del linguaggio? Lo fanno perché non c’è chi insegna, o perché si sentono “imparati”?

Ci rimango male, esaminando centinaia di poesie in tutti i dialetti d’Italia e constatando che la maggior parte dei poeti riserva al vernacolo solo un certo tipo di sensazioni, argomenti, emozioni: quelle legate ai ricordi, alla tradizione, a fatterelli più o meno ironici. Difficilmente vengono affrontati temi Alti e Grandi, come se esprimersi in dialetto impedisse di esplicitare concetti sociali o politici, filosofici o religiosi, intimisti o universali.

Ci rimango male, quando vedo che i Poeti con la P maiuscola: quelli che raggiungono altissimi livelli di espressione curando sia la tecnica che il sentimento (che è la sola condizione in cui si possa parlare di Vera Poesia), vengano quasi messi da parte o esibiti come comprimari nelle varie premiazioni o recensioni. Mi accade, purtroppo è la regola, di assistere alle premiazioni dei concorsi e vedere che i premi e le premiazioni dei concorrenti siano sempre in funzione di un’attenzione maggiore per chi si esprime in lingua anziché in dialetto. Come se l’impegno nella ricerca, nell’approfondimento, nel mantenimento e nella diffusione dei dialetti, passasse in secondo piano rispetto alla facilità di espressione, all’inutile complicazione dello scritto rispetto al parlato e alla desolante omologazione delle forme e dei contenuti, di chi si esprime in italiano.

Ci rimango male, vedendo che nel “mare magnum” della poesia, i pochi “rari nantes” non vengono soccorsi perché destinati comunque ad essere perduti. È vero che battersi per il dialetto è una battaglia di retroguardia, perché comunque la guerra si sta perdendo ed è solo questione di tempo la sparizione degli idiomi locali? A favore di che? Di una lingua sempre più sgrammaticata, sempre meno pura, sempre più appiattita come la sua poesia?

Ci rimango male quando le mie idee vengono bollate come faziose e preconcette: anni di esperienza diretta e approfondita sull’argomento, mi autorizzano ad esprimere certi concetti senza paura di essere smentito. Forse i faziosi sono quelli che non si rendono conto di far male alla poesia. (“… soffio leggero de pensiero umano/ amica che ce pija pe la mano/ e ciarigala sogno e fantasia.”)

Ci rimango male a dover fare certe considerazioni. Ci rimango molto male.

Maurizio Marcelli