Nel 2012 si è ricordato il 100° della scomparsa del poeta Giovanni Pascoli, uno dei “grandi” della nostra letteratura. Per quelli della nostra generazione, ossia nati a cavallo degli anni ’40-’50 del secolo scorso, già sui banchi della scuola elementare abbiamo im-parato a conoscere un poco il poeta romagnolo.

Infatti, chi non ricorda alcune delle poesie imparate a memoria: La quercia caduta, Àrano, La mia sera e, soprattutto, La cavalla storna, e tante altre? Poi, con l’avvento della poesia “ermetica”, l’interesse sulla poesia del Pascoli è scemato parecchio, e neppure della sua vita complessa (e anche controversa), si è parlato quasi più.

Eppure il poeta, non soltanto è tuttora uno dei più “grandi” della nostra letteratura, ma la sua stessa vita è sicuramente degna di essere rispolverata e magari anche a approfondita, pur con i suoi tanti aspetti controversi.

Ma andiamo per ordine: Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli, in provincia di Rimini) il 31 dicembre 1855, quarto figlio di Ruggero e Caterina Allocatelli Vincenzi. Vive la sua infanzia nella tenuta agricola “La Torre” dei principi Torlonia, di cui il padre è amministratore.

Dal 1861 al 1871 studia nel collegio dei Padri Scolopi, ad Urbino. Tra i suoi insegnanti c’è il latinista G. Giacoletti, già vincitore del premio internazionale per una poesia in latino ad Amsterdam: premio che il Pascoli, come vedremo, vincerà a sua volta, e in diverse edizioni. Ad Urbino pubblicherà la sua prima poesia, Il pianto dei compagni (1867), per la morte di un compagno di studi, Pirro Viviani, che sarà poi ricordato nella nota poesia L’aquilone. Però, il 10 agosto del 1867 la sua vita viene sconvolta dalla tragedia: mentre il padre tornava a casa in calesse, viene assassinato con alcuni colpi di fucile.

Dell’assassinio non si scoprirà mai l’esecutore, anche se il Pascoli ebbe più di un sospetto (di natura politica), forse anche molto probante, ma che la Giustizia non acclarò mai.

Ma l’anno 1867 fu anche l’inizio di una serie di lutti che colpirà la sua famiglia. L’anno successivo la morte del padre, muore per malattia anche la madre; quindi, nel 1871 scompare il fratello Luigi e nel 1876 l’altro fratello Giacomo, a quel tempo unico sostegno per la famiglia.

Seguono anni di miseria, anche perché gli sarà revocata la borsa di studio conferitagli nel 1873 (tra gli esaminatori Giosuè Carducci) a causa di una manifestazione di studenti contro il Ministro Bonghi; conosce e fa amicizia con l’anarchico Andrea Costa, uno dei “padri” del Socialismo italiano e nel 1878 si iscrive all’Internazionale Socialista; si impegna in riunioni e attività politiche, partecipando a manifestazioni di piazza. Il 7 settembre 1879, avendo manifestato in favore di un gruppo di internazionalisti, viene arrestato e rinchiuso nel carcere di San Giovanni in Monte, a Bologna: vi resterà quasi quattro mesi, fino al 22 dicembre, quando viene prosciolto con formula piena, grazie anche a una dichiarazione scritta di Carducci. È tuttavia durante la detenzione che maturerà la coscienza della vacuità dell’azione politica eversiva, pur rimanendo sostanzialmente aderente alla concezione utopistica del socialismo.

Riottenuta la borsa di studio, nel 1882 si laurea in discutendo una tesi sulla metrica di Alceo. Nello stesso anno è chiamato ad insegnare latino e greco al liceo “Duni” di Matera; nel 1884 è a Massa, quindi nel 1887 a Livorno. Nel 1896 è nominato professore incaricato di grammatica greca e latina all’Università di Bologna, dove ritrova i vecchi amici e colleghi, tra il poeta Severino Ferrari. In quello stesso anno matura la decisione di fidanzarsi con la cugina Imelde Morri, ma da cui è costretto a separarsi per la ferrea opposizione della sorella Maria, di cui diremo appresso. L’anno successivo è chiamato a Messina come ordinario di letteratura latina: vi rimarrà fino al 1903, quando viene trasferito a Pisa. Nel 1905 è ancora a Bologna alla cattedra di letteratura italiana, già occupata dal Carducci.

Intanto nel 1892 ha vinto il Concorso internazionale di poesia latina ad Amsterdam (ne vincerà tanti altri, ben quattro a tutto il 1896, e l’ultimo nel 1912); nel 1895, dopo il matrimonio della sorella Ida, evento per il quale il poeta ne è come sconvolto, si trasferisce a Castelvecchio di Barga, in Garfagnana, in una casa acquistata con la vendita delle medaglie d’oro conquistate ad Amsterdarm, con Maria, che sarà per lui il nucleo familiare superstite e a cui resterà legato per tutta la vita.

Ai primi di febbraio del 1912 si ammala di tumore al fegato: muore a Bologna il 6 aprile dello stesso anno; ha da poco compiuto 56 anni.

La sua attività letteraria inizia con la pubblicazione della sua prima raccolta di poesie, Miricae (1891). A partire dal 1895 inizia la composizione e relativa pubblicazione dei Poemetti, che saranno successivamente riordinati, divisi e ripubblicati in Primi poemetti (1904),Poemi conviviali (1904-105) Nel 1903 escono i Canti di Castelvecchio; quindi Odi e inni (1906), Nuovi poemetti, Le canzoni di Re Enzio(1909), Poemi italici e Poemi del Risorgimento, postumi e incompiuti (1913).

Una raccolta sistematica delle sue poesie in latino – contenente anche quelle vincitrici dei concorsi ad Amsterdam – sarà pubblicata postuma, nel 1915, col titolo di Carmina.

La “poetica” fondamentale del Pascoli può ricondursi in una concezione dolorosa della vita, sulla quale influirono due fatti principali: le tragedie familiari e la crisi di fine ottocento.

I lutti di cui si è detto lasciarono nel suo animo un’impressione profonda e gli ispirarono il mito del “nido” familiare da ricostruire, del quale fanno parte i vivi e idealmente i morti, legati ai vivi dai fili di una misteriosa presenza. In una società sconvolta dalla violenza e in una condizione umana di dolore e di angoscia esistenziale, la casa è il rifugio nel quale i dolori e le ansie si placano.

L’altro elemento che influenzò il pensiero di Pascoli, fu la crisi che si verificò verso la fine dell’Ottocento e travolse i suoi miti più celebrati, a cominciare dalla scienza liberatrice e dal mito del progresso. Pascoli, nonostante fosse un seguace delle dottrine positivistiche, non solo riconobbe l’impotenza della scienza nella risoluzione dei problemi umani e sociali, ma l’accusò anche di aver reso più infelice l’uomo, distruggendogli la fede in Dio e nell’immortalità dell’anima, che erano stati per secoli il suo conforto.

Circa la vita sentimentale del Pascoli, sappiamo che lui non si sposò mai, che il fidanzamento con la cugina Imelde Morri fu solo una parentesi breve e forse di nessun trasporto affettivo; che di contro fu molto legato – né a tutt’oggi sappiamo di che effettiva natura fosse il sentimento – alle sorelle Maria e Ida, specialmente alla prima, la quale al pari del fratello non si sposò.

Ma anche il legame affettivo con la sorella Ida è alquanto contraddittorio: allorquando lei si sposò (1895) il poeta da Roma – dove era stato “comandato” dal Ministero della Pubblica Istruzione – sconvolto, scrive una lettera alla sorella Maria, in cui testualmente si dice: “Questo è l’anno terribile; dell’anno terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato. Io amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni, virtualmente, mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre. Io resto attaccato a voi, a voi due, a tutte e due: a volte sono preso da accesi furori d’ira, nel pensare che l’una freddamente se ne va strappandomi il cuore, se ne va lasciandomi mezzo morto in mezzo alla distruzione de’ miei interessi, della mia gloria, del mio avvenire, di tutto!”

Fu forse questa la circostanza che fece ventilare a qualcuno la possibilità di un rapporto incestuoso con una o ambedue le sorelle; ma, come si diceva prima, il fatto non è stato mai accertato. Come non è stata mai accertata l’omosessualità del Pascoli, da alcuni ipotizzata; anzi, alla luce di nuove approfondite ricerche, pare che il poeta fosse sicuramente eterosessuale.

La “poetica” del Pascoli per larghi tratti può essere ricondotta allo scritto teorico del Il fanciullino (1897), in cui egli motiva la sua concezione della poesia: il poeta appunto è equiparato al “fanciullino” che “piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla ragione”. Questa concezione antintellettualistica è in effetti alla base dell’opera poetica pascoliana, che ne costituisce la corrente espressione. Ma, ben al di là della cupezza e della confusionarietà teorica del Nostro, la sua poesia va intesa come rottura e reazione alla tradizione classicista e oratoria che aveva in Carducci il suo ultimo protagonista e dominatore presso il pubblico dei lettori. Al mondo della meditazione storica e dei temi di carattere “civile”, egli sostituisce quello degli affetti e delle emozioni quotidiani e della riflessione esistenziale. Con il Pascoli la poesia si volge decisamente a una dimensione lirica. Anche il linguaggio opera con il poeta romagnolo una sterzata fondamentale, conferendo alla parola una funzione allusiva ed evocativa (ripresa poi dagli “ermetici”). Così i temi della poesia pascoliana sono, prevalentemente, quelli della nostalgia dell’età infantile, della civiltà contadina intesa come recupero idillico del rapporto uomo-natura, del senso della morte come limite non solo fisico dell’esperienza umana. Insieme con la sua tragica esperienza familiare, concorre a formare questa concezione il trauma delle dure lotte sociali che si stavano sviluppando proprio nella sua Romagna. Infine, un altro elemento determinante di questa sfiducia nella razionalità, fu, come si è accennato, la crisi dello scientismo positivistico.

Tutti questi elementi influirono e si riflessero negativamente anche sulle sue avanzate posizioni politiche, che addirittura sfociarono in decisa reazione: infatti, il documento più eclatante di questa sua inversione ideologica fu il discorso La grande proletaria si è mossa, del 1911, a sostegno dell’intervento colonialista italiano in Libia.

Ciononostante, pur tra mille contraddizioni, con diversi critici in posizioni diverse e talora divergenti – il Croce, ad esempio, nel 1907, nel massimo della fama del Pascoli, pubblicherà su di lui un severo giudizio (ma noi non ci sorprendiamo delle sonore e fuorvianti “stroncature” del critico abruzzese, auspicando nel contempo che la sua critica venga rivista e corretta) – il Pascoli resta sicuramente una delle voci più interessanti e finanche innovative dell’intera letteratura italiana e che avvia la sostanziale riforma poetica del ‘900.